Vulvodinia, svolta nella diagnosi e nelle possibilità di cura

In poco più di mezz'ora la malattia può essere riconosciuta

Annunciata una svolta nella diagnosi e nella cura delle vulvodinia, malattia considerata “immaginaria” fino a pochissimi anni fa, ma che negli Stati Uniti affligge una donna su sei. Senza considerare i dati sommersi, si ipotizza che anche in Italia, il 15% della popolazione femminile possa soffrire di vulvodinia. Una problematica invalidante, oltretutto, che colpisce un’ampia fascia d’età compresa tra i 14 e i 68 anni e di cui, ancora adesso, non se ne parla abbastanza.

“Fortunatamente, oggi, dopo il Q-Tipe Test, un esame specifico della vulva e una valutazione approfondita del muscolo pelvico, in poco più di mezz’ora siamo in grado di diagnosticare il problema e soprattutto di prospettare una terapia alle mie pazienti, le quali troppo spesso arrivano da me demotivate e fortemente provate psicologicamente perché incomprese e sfiduciate dai vani tentativi di cura proposti loro negli anni”, ha spiegato la dottoressa Rosanna Palmiotto che ha dedicato i suoi studi ad approfondire la natura di questa patologia, da cui lei stessa è stata affetta da giovanissima e per la quale è considerata una antesignana nelle cure. “E’ un grande traguardo perché, fino ad ora, questa malattia veniva diagnosticata, in media, con quattro anni e mezzo di ritardo”.

Caratterizzata da svariati sintomi come bruciore vaginale, infiammazione frequente e dispareunia, ossia dolore durante il rapporto sessuale, la vulvodinia è una malattia invalidante che compromette la vita personale e affettiva di molte donne. Riconosciuta dalla comunità scientifica come malattia soltanto nel 2003, la vulvodinia è stata per anni vissuta dalle donne come un “segreto”, un disagio psicofisico silenzioso e privo di soluzione, su cui non vi era alcuna evidenza scientifica.

La Palmiotto, avendo vissuto sulla sua pelle il problema, da anni cerca di operare una sorta di “rivoluzione culturale” rispetto all’approccio medico alla vulvodinia, una malattia sottovalutata ma ormai assai diffusa. Oggi, anche grazie all’intervento pubblico di influencer come Giorgia Soleri che ha dichiarato di essere affette da vulvodinia, questa patologia ha avuto una eco mediatica anche se permangono i ritardi nelle diagnosi.


“Sulle malattie di genere – ha aggiunto Palmiotto – c’è ancora troppa chiusura mentale, come dimostra la bassissima presenza di medici specializzati sulla vulvodinia, una malattia da cui è però urgente e importante sapere che si può guarire, grazie a un approccio medico multidisciplinare e personalizzato che coinvolge diverse figure, a seconda dei casi: ginecologo, osteopata, sessuologo, psicologo e posturologo. Le cause di questa patologia possono essere infatti molteplici e risalgono quasi sempre all’infanzia: attività fisica che ha contratto il muscolo pelvico, ferite emozionali derivanti da abusi sessuali che hanno generato una chiusura del pavimento pelvico e molte altre casistiche che richiedono cure diverse a seconda della genesi del problema”.

Fonte: askanews.it

I sintomi, le opzioni terapeutiche e l’importanza di una diagnosi precoce

L’endometriosi prende il nome dall’endometrio, il tessuto che normalmente riveste l’interno dell’utero. Quando questo cresce in modo anomalo al di fuori dell’utero, può causare lesioni e infiammazione in altre aree del corpo, come le ovaie e la zona pelvica, dando origine all’endometriosi: una malattia che colpisce circa 190 milioni di donne in età fertile (tra il 2% e il 10% della popolazione femminile mondiale), con una prevalenza che in Italia varia tra il 10% e il 15%. L’incidenza sale al 30-50% tra le donne infertili o con difficoltà a concepire. Le diagnosi accertate sono almeno 3 milioni.

“L’endometriosi è una patologia infiammatoria cronica, che colpisce soprattutto tra i 25 e i 35 anni, ma può manifestarsi anche in età più giovane – spiega Marco Grassi,ginecologo presso l’ospedale ‘C. e G. Mazzoni’ di Ascoli Piceno – le cause sono ancora poco note e la diagnosi, purtroppo, arriva spesso dopo molto tempo”.

Quali sono i sintomi? Il sintomo principale dell’endometriosi è il dolore, in particolare quello pelvico cronico, spesso associato a mestruazioni dolorose. Il dolore può anche manifestarsi durante i rapporti sessuali, l’evacuazione intestinale o la minzione. In alcuni casi, è così intenso da influire sulla vita quotidiana. Altri sintomi includono sanguinamenti abbondanti, disturbi intestinali e gonfiore addominale. Tuttavia, alcune donne possono non avere sintomi evidenti.

Come si diagnostica? “L’identificazione dell’endometriosi inizia con un’analisi dettagliata della storia clinica della paziente ed una precisa anamnesi – afferma il dottor Marco Grassi – inoltre è importante considerare la presenza di casi in famiglia, poiché esiste una predisposizione genetica alla condizione. Per una donna con sospetto di endometriosi, la visita ginecologica deve includere l’ecografia pelvica per rilevare cisti o tessuti anomali e, se necessario, una risonanza magnetica. L’endometriosi non è sempre uguale. I vari stadi L’endometriosi è suddivisa in quattro stadi, identificati dall’American Society for Reproductive Medicine (ASRM). La classificazione si basa sulla diffusione della patologia e sull’entità dei danni causati, che influenzano le opzioni terapeutiche disponibili.

Primo stadio: l’endometriosi è di entità minima, con lesioni di dimensioni contenute e il tessuto endometriale fuoriuscito dall’utero si presenta localizzato superficialmente.

Secondo stadio: il numero di lesioni è maggiore e sono più profonde.

Terzo stadio: aumento dell’estensione della malattia, con la presenza di cisti ovariche e la formazione di aderenze o cicatrici tra gli organi pelvici.

Quarto stadio: forma grave, con impianti profondi, cisti di notevoli dimensioni su una o entrambe le ovaie, e la presenza di aderenze e cicatrici.

L’endometriosi è inserita tra i LEA (Livelli essenziali di assistenza) nell’elenco delle patologie croniche e invalidanti. Nelle forme più avanzate (stadi III e IV), le pazienti hanno diritto ad esenzione per alcune prestazioni di controllo.

Esiste una cura? Non c’è una cura definitiva, ma diverse terapie possono gestire i sintomi, a seconda della gravità e del desiderio di gravidanza. Per il dolore, si utilizzano solitamente FANS e analgesici. “Nella scelta del trattamento è importante tenere in considerazione anche l’età della donna ed il relativo potenziale di fertilità – spiega il dottor Grassi – l’uso di estroprogestinico o progestinico può favorire un miglioramento dei sintomi, poiché inibisce la stimolazione ormonale e la crescita degli impianti endometriosici. Il trattamento con analoghi del GnRH, che blocca completamente la stimolazione ovarica e provoca effetti collaterali simili alla menopausa, è riservato a casi che necessitano di intervento chirurgico”.

Prevenzione Sensibilizzare verso la malattia è la migliore forma di prevenzione. “La scarsa consapevolezza contribuisce a un ritardo diagnostico di ben sette anni, con un impatto profondo sulla qualità della vita ed il benessere psico-fisico della donna” sottolinea il dottor Grassi.

E’ possibile rimanere incinta? L’endometriosi è responsabile di sub-fertilità o infertilità nel 30-40% dei casi. Tuttavia non è esclusa completamente la possibilità di restare incinta specie nelle donne che presentano forme meno gravi.

I cibi da mangiare e quali evitare? Si consiglia una dieta ricca di fibre (cereali integrali, legumi, frutta e verdura) e Omega 3 (pesce, frutta secca, semi, olio d’oliva, carne bianca e uova). Ridurre grano, carne rossa e latticini. Eliminare cibi infiammatori come prodotti industriali, farine raffinate, carni rosse, zucchero, alcol, caffeina e bevande gassate.

Lo sport aiuta? L’esercizio fisico stimola il rilascio di endorfine, che alleviano il dolore pelvico cronico, sintomo comune dell’endometriosi, e abbassa i livelli di estrogeni. Pratiche mente-corpo come lo yoga, possono ridurre stress, ansia e dolore, migliorando il benessere fisico e mentale delle pazienti con endometriosi.


Fonte: askanews.it

Basta ritardi nel rimborso dei bonus

La Regione Sicilia si appresta a digitalizzare la gestione dei buoni per i celiaci con l’adozione della piattaforma CELIACHI@RL di ARIA SPA, operativa da agosto prossimo. Una svolta attesa da tempo dai negozi specializzati, che però chiedono garanzie sui tempi di rimborso, spesso non rispettati. A farsi portavoce delle loro esigenze, informa una nota, sarà Michele Mendola, referente regionale di AINC – Associazione Italiana Negozi Celiachia e fondatore della community online CeliachiaFacile, nel corso dell’incontro promosso dall’Assessorato alla Salute della Regione Sicilia, in programma il 17 marzo.

“La Sicilia è una delle poche Regioni che ancora gestisce manualmente il rimborso dei buoni. Una volta utilizzato il bonus, l’esercente deve inviarlo alla ASP competente e, per legge, dovrebbe ricevere il rimborso entro 30 giorni. Tuttavia, questo termine non viene rispettato: i ritardi superano spesso i due mesi, a volte anche sei mesi e oltre, mettendo a rischio la sopravvivenza dei negozi specializzati” – spiega Mendola. La piattaforma CELIACHI@RL è stata sviluppata proprio per snellire la burocrazia e garantire una gestione più efficiente, con risultati positivi nelle Regioni che l’hanno già adottata. “Grazie anche al contributo di AINC, il sistema è stato ottimizzato e speriamo che in Sicilia possa finalmente garantire rimborsi puntuali. I negozi specializzati offrono un servizio essenziale per chi è intollerante al glutine e meritano maggiore tutela” – aggiunge Mendola.

Un ulteriore vantaggio della digitalizzazione riguarda i buoni spesa per i celiaci, attualmente utilizzabili solo nella propria Regione di residenza. Se la piattaforma verrà adottata su scala nazionale, sarà possibile spendere i buoni ovunque in Italia, facilitando la vita di chi si sposta per lavoro o per vacanza. Per illustrare le potenzialità della piattaforma e raccogliere le istanze dei titolari di negozi specializzati, AINC ha organizzato un incontro il 16 marzo a Palermo, presso l’Hotel Sirenetta, Viale dei Saraceni. Parteciperanno, oltre a Michele Mendola, anche Bruno Prandolini (Segretario Nazionale AINC), Giuseppe Fresolone (Amministratore Delegato di Ergo-Web) e Giovanna Manganotti (referente del Gruppo Sinergia).

Fonte: askanews.it

Studio Neuromed: “Risposta immunitaria protegge cuore da scompenso”

L’insufficienza cardiaca rappresenta una delle principali cause di mortalità legate all’ipertensione, una condizione che coinvolge milioni di persone in tutto il mondo. Ora uno studio guidato dall’Irccs Neuromed di Pozzilli e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Immunity, svela un meccanismo biologico che coinvolge il cuore, il cervello e la milza nella risposta cardiaca al sovraccarico emodinamico cardiaco provocato dall’ipertensione arteriosa.

“Abbiamo scoperto – spiega Sara Perrotta, Ricercatrice dell’Irccs Neuromed, primo autore della ricerca – che il cuore, sotto pressione a causa dell’ipertensione, invia un segnale al cervello, che a sua volta attiva il sistema immunitario nella milza. Quest’ultima rilascia un fattore di crescita, chiamato Placental Growth Factor (PlGF), capace di stimolare specifiche cellule immunitarie presenti nel muscolo cardiaco, favorendo un rimodellamento inizialmente adattativo. Tuttavia, con il tempo, questo processo tende a peggiorare, compromettendo la funzionalità del cuore”.

La ricerca, condotta sia su modelli animali che nell’uomo, descrive un vero e proprio circuito biologico che collega tre organi: il cuore, che segnala il sovraccarico; il cervello, che processa l’informazione e invia comandi alla milza; e la milza stessa, che risponde producendo il PlGF, una molecola già nota per la sua importanza nei processi di crescita e riparazione dei tessuti. E si torna di nuovo al cuore: il PlGF stimola dei particolari macrofagi residenti in questo organo esprimenti il recettore Neuropilina-1. Queste cellule immunitarie, stimolate da PlGF, proliferano per favorire una risposta strutturale che consente al muscolo cardiaco di sopportare meglio la pressione elevata.

Lo studio non si è limitato agli esperimenti su modelli animali. Gli scienziati hanno infatti osservato che, anche in pazienti ipertesi, i livelli di PlGF nel sangue aumentano parallelamente ai segni di un rimodellamento del cuore. Inoltre, è stata individuata l’espressione di una particolare proteina, Neuropilina-1, nei macrofagi del tessuto cardiaco umano, confermando l’esistenza di un meccanismo simile anche nella nostra specie.

“Questa scoperta – commenta Daniela Carnevale, Professore Ordinario dell’Università Sapienza di Roma e Irccs Neuromed, ultimo nome e autore di riferimento dello studio – apre nuove prospettive nella comprensione di come il sistema nervoso e quello immunitario lavorino insieme per governare la risposta del cuore nei processi patologici che portano allo scompenso cardiaco. In futuro, potremmo immaginare strategie terapeutiche capaci di modulare questa risposta naturale per prevenire l’evoluzione dell’insufficienza cardiaca”.

Lo studio ha coinvolto ricercatori provenienti da diversi Istituti internazionali tra cui l’Università di Manchester, l’Università di Toronto e l’Università di Edimburgo, a testimonianza di una collaborazione scientifica globale su un tema di grande impatto per la salute pubblica.

Fonte: askanews.it

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